Leggete la lezione del Prof. Finnis-Giovanni Paolo II e i fondamenti dell’etica

Leggete la lezione del Prof. Finnis-Giovanni Paolo II e i fondamenti dell’etica

 

“È un vero privilegio essere invitati a tenere lezioni all’Angelicum, alla Facoltà di Filosofia e all’Istituto di Cultura Giovanni Paolo II.  E ho accolto con favore il tema che mi è stato indicato: “Giovanni Paolo II e i fondamenti dell’etica”.  Permettetemi di iniziare con qualche parola su questo titolo o argomento.

Per prima cosa, prenderò il nome “Giovanni Paolo II” ad litteram e concentrerò la mia discussione sui suoi scritti come Papa.  Ricorderò alcuni elementi di spicco del libro La persona che agisce, dove si illustra un documento papale, ma con questa eccezione non toccherò quasi mai gli scritti pre-papali.  Mi concentrerò invece sulla sua prima enciclica, Redemptor Hominis, l’enciclica Laborem Exercens, e l’enciclica Veritatis Splendor, con occasionali citazioni di altre sue dichiarazioni come Papa. Queste tre encicliche hanno esposto una concezione dei fondamenti dell’etica che merita e ripaga lo studio.  

E illustrano una delle più importanti proposizioni dell’insegnamento cristiano, la proposizione (ripetutamente affermata da san Tommaso) che alcuni importanti elementi dell’insegnamento cristiano riaffermano e rendono più ampiamente disponibili gli equivalenti insegnamenti della sana filosofia.  Un esempio è la verità che l’universo è creato ex nihilo da un atto trascendente della ragione, della volontà e del potere esecutivo che attua la scelta trascendente di creare e, nello specifico, di creare questo universo piuttosto che una qualsiasi delle innumerevoli alternative possibili.  

Un altro esempio è quello che la sana filosofia afferma come principi e precetti morali fondamentali, quelli che San Paolo aveva in mente in Romani 2. 14 quando insegnava che tutti quei popoli ai quali la Legge rivelata a Mosè e a Israele non è stata rivelata sono comunque in grado, per natura – per ragione naturale sotto forma di coscienza – di dare giudizi morali che corrispondono alla Legge rivelata.  Molti passi nei Romani e in altre epistole indicano che Paolo parla della Legge enunciata nel Decalogo, non delle molte altre parti della Legge mosaica, che nella tradizione portata avanti da san Tommaso sono state chiamate i suoi “precetti cerimoniali e giudiziari”, in contrapposizione alla sua parte “morale”.  Considerati filosoficamente, i precetti del Decalogo – ad eccezione della determinazione del periodo di riposo come un giorno su sette – sono precetti della legge naturale.  Sono cioè norme che (come dice Paolo ai cristiani romani) sono accessibili alla ragione umana senza l’aiuto della rivelazione – accessibili sia sotto forma di coscienza, come Romani 2. 15 o della filosofia.  Paolo sottolinea questa accessibilità dicendo che “i gentili che non hanno la Legge fanno per natura (physei) ciò che la Legge richiede, e così sono una legge a loro stessi” perché “il contenuto [ergon] della Legge è scritto sul loro cuore (kardíais; cordibus), mentre anche la loro coscienza (syneideseôs; conscientia) testimonia…”.  (Torneremo più tardi su queste parole “cuore” e “coscienza”).

 

La maggior parte della mia lezione sarà filosofica.  Ma non escluderà rigorosamente il dottrinale e il teologico, cioè le proposizioni e le riflessioni basate sulla rivelazione.

 

Fondamentale per l’etica (o, per dire la stessa cosa: ai fondamenti dell’etica) è la costituzione, il trucco, la natura e l’essenza della persona umana che può essere moralmente buona o moralmente cattiva.  L’etica si fonda su realtà affermate dalla metafisica, dall’ontologia e dall’antropologia – sulle realtà date della natura umana.  Ma nell’ordine della scoperta, come dice San Tommaso più di una volta, la metafisica arriva per ultima e, come egli sottolinea innumerevoli volte dalle prime alle ultime opere, la natura di una realtà/essere dinamico è conosciuta (scoperta) conoscendo le capacità dell’essere, e queste sono conosciute solo conoscendone le attività, gli atti, le attuazioni di tali capacità, e gli atti sono conosciuti e compresi solo conoscendone gli oggetti.  E come chiarisce l’Aquinate nella sua discussione formale dei primi principi dell’etica nel Prima-Secundae q. 94 a. 2, gli oggetti degli atti umani sono beni intelligibili, i beni che il primo principio della ragione pratica ci indirizza e gli altri primi principi della ragione pratica identificano.  E ciò che è buono o difettoso nel perseguimento dei beni è l’oggetto dell’etica.  Quindi conosciamo la natura umana in modo adeguato, filosoficamente, metafisicamente, comprendendola prima eticamente.  

Questa conclusione, se non – o non esplicitamente – tutti i ragionamenti verso di essa, ispira (credo) tutto il lavoro filosofico pre-papale di Giovanni Paolo II sulla natura della persona umana e degli atti umani.

 

Quindi considererò prima di tutto alcuni elementi principali e conclusioni della sua analisi degli atti delle persone umane.  Poi considererò la metodologia implicita o forse esplicita impiegata in tale analisi: l’adozione del punto di vista interno, l’autocomprensione della persona che delibera, intende e sceglie.  E poi considererò ciò che è rimasto sottosviluppato nel lavoro filosofico di Karol Wojtyla sulla natura umana, lo studio dei beni umani intelligibili e del buon modo di perseguirli e attualizzarli: lo studio che si chiama propriamente etica.

 

  1. Laborem Exercens (1981)

L’edizione originale polacca di The Acting Person di Karol Wojtyla ha, mi pare di capire, il sottotitolo: “An Attempt at Constructing Catholic Ethics on the Basis of Scheler’s Philosophy” (un sottotitolo non usato né citato nell’edizione inglese pubblicata dieci anni dopo, nel 1979). Lasciando da parte tutte le domande sul rapporto tra la filosofia di Scheler e quella di Giovanni Paolo II, sulle quali è stato scritto molto, nessuna delle quali mi interessa valutare, il punto che voglio sottolineare è che il libro non è stato concepito semplicemente come una fenomenologia o uno studio dell’esperienza personale dell’agire, dell’essere soggetto dell’agire, ma almeno come un fondamento dell’etica – uno studio di uno dei fondamenti dell’etica.  Qui e in tutto il libro prendo l'”etica” come una comprensione critica e riflessiva della moralità delle scelte, delle disposizioni e delle azioni, e quindi di ciò che è per una persona essere moralmente buona o moralmente cattiva.  C’è quindi solo una sfumatura di differenza tra “etica” e “morale”, e tendo a usare i termini “etico” e “morale” in modo intercambiabile   (Questa intercambiabilità si trova anche, ad esempio, in Laborem Exercens). Un fondamento dell’etica è un fondamento della morale perché l’etica è fondamentalmente uno studio teorico (anche se anche pratico: pratico-teorico) della morale, uno studio in cui la questione decisiva è: quali sono i veri standard in base ai quali posso valutare le mie scelte reali o prospettiche come moralmente sane o non sane (immorali), e quindi anche valutare, in termini simili, il mio stile di vita e me stesso.

Tralasciando per un attimo la questione dei veri standard, a cui torneremo, in questa prima sezione mi concentro sul rapporto tra scelte, atti, modi di vivere e “sé”, cioè le persone – in primo luogo me stesso – come autodeterminanti e automodellanti per scelta.  Questo è l’argomento o il tema che il libro La persona che agisce assume come preoccupazione principale, e che è fondamentale per l’enciclica Laborem Exercens.  Questa è stata la terza enciclica di Giovanni Paolo II, esplicitamente legata alla sua prima, Redemptor Hominis (che prenderemo presto in considerazione) ed è implicitamente in stretta relazione con il libro.  Laborem Exercens, pubblicata nel settembre 1981 con il sottotitolo “sul lavoro umano, nel novantesimo anniversario della Rerum Novarum”, ha tra i suoi temi primari l’insegnamento sociale cattolico sulla proprietà e quindi sul socialismo e sul comunismo e sul capitalismo e l’economia esagerati o normo-economismo; e io oggi ignorerò tutto questo, nonostante il suo valore.  Mi concentro sull’altro tema primario, il “lavoro umano”.

L’enciclica identifica con precisione il proprio “filo conduttore”: “il mistero della creazione” (par. 12; anche il par. 4).  Perché con il lavoro, infatti, l’uomo si realizza, si sviluppa o si realizza: cioè, ciascuno di noi partecipa alla creazione di Dio su di noi, anche quando il lavoro – quello a cui lavoriamo, o a cui lavoriamo – è umile nel suo “carattere oggettivo” di lavoro.  (E qui si dovrebbe ricordare che parlando della creazione divina, trascendente, non dobbiamo allontanarci da quella strettamente filosofica.  Perché gli argomenti strettamente filosofici dimostrano che l’universo deve avere la sua spiegazione in un atto così trascendente).

L’enciclica dispiega, in tutto, una distinzione tra “lavoro in senso soggettivo” e “lavoro in senso oggettivo”.  Questa distinzione non ha nulla a che vedere con la distinzione tra verità “oggettiva” e mera opinione “soggettiva”, opinione fortemente sostenuta e affermata ma priva di oggettività, cioè priva di verità.  La distinzione dell’enciclica riflette il fatto che il lavoro ha due aspetti, due dimensioni, due razionalità.  In “senso oggettivo”, il lavoro è diretto verso un oggetto esterno, per esempio, una parte delle risorse del mondo; e trasforma quell’oggetto esterno con un altro oggetto esterno, per esempio, una macchina creata dal lavoro di qualcuno (forse di qualcun altro – di un’altra persona); e quindi risulta in un altro oggetto esterno, il prodotto finito.  Anche quando si prende il lavoro, come intende l’enciclica, in senso più generico, come se includesse tutte le forme di attività scelte in questo mondo del tempo – compresa (credo) anche l’attività e il lavoro di contemplazione, c’è un aspetto “oggettivo”: l’attività scelta come fenomeno osservabile nel tempo e nello spazio.  

Così, credo, l’idea di oggetti “esterni” è da intendersi come comprensiva di tutto ciò che è esterno alla volontà, all’atto di deliberare e di scegliere: così la preghiera e la contemplazione, come esito di un atto di scelta, sono esterne alla propria volontà, anche se sono osservabili solo da chi prega o contempla.

  E questo, credo, è il caso (il fatto della questione) anche se l’osservazione è in un certo senso interna, e anche se – come ha brillantemente sottolineato Elizabeth Anscombe – sappiamo quello che stiamo facendo senza dover “osservare” quello che stiamo facendo.  Si può osservare ciò che si sta facendo, ma non è necessario, perché si sa già (prima di osservare) ciò che si sta facendo, perché nel farlo si sta realizzando il piano (la proposta, l’insieme dei fini e dei mezzi previsti) che si è formato nel deliberare e adottato scegliendo.  Dicendo questo, sono andato oltre ciò che dice l’enciclica e forse anche oltre ciò che Giovanni Paolo II pensava, o pensava.  Ma quello che dico è del tutto in linea con il suo pensiero, il suo interesse “fenomenologico” e l’intento “personalista”.

Il capitolo 4 di Laborem Exercens introduce in queste parole l'”aspetto oggettivo” del lavoro:

Il lavoro inteso come un’attività “transitiva”, cioè un’attività che inizia in un soggetto umano e che si dirige verso un oggetto esterno, presuppone un dominio specifico dell’uomo sulla “terra” e, a sua volta, conferma e sviluppa tale dominio.

 

La parola “transitivo” suggerisce, ovviamente, il suo opposto, “intransitivo”.  Ma, non volendo imporre il proprio vocabolario filosofico alla Chiesa, Giovanni Paolo II si astiene nell’enciclica dall’usare il termine “intransitivo”, anche se è un termine chiave nella sua stessa spiegazione filosofica di ciò che l’enciclica chiama l’aspetto “soggettivo” del lavoro.  L’aspetto soggettivo o rapporto del lavoro è spiegato nella sez. 6 di Laborem Eercens:

L’uomo deve sottomettere la terra e dominarla [= avere il dominio su di essa], perché come “immagine di Dio” è una persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo pianificato e razionale, capace di decidere di se stesso [deliberandum de se], e con una tendenza all’autorealizzazione [eoque contendem ut de se ipsum perficiat]. Come persona, l’uomo è quindi soggetto di lavoro. Come persona che lavora, egli compie varie azioni che appartengono al processo di lavoro; indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, queste azioni devono servire tutte a realizzare la sua umanità, a realizzare la chiamata ad essere una persona che è sua in ragione della sua stessa umanità. … [corsivo in originale, avvincente (qui e altrove) aggiunto]

E così questo “dominio” di cui si parla nel testo biblico qui meditato si riferisce non solo alla dimensione oggettiva del lavoro, ma allo stesso tempo ci introduce alla comprensione della sua dimensione soggettiva. Inteso come un processo in cui l’uomo e il genere umano sottomettono la terra, il lavoro corrisponde a questo concetto biblico di base solo quando nel corso di tutto il processo l’uomo si manifesta e si conferma come colui che “domina”. Questo dominio, in un certo senso, si riferisce alla dimensione soggettiva ancor più che a quella oggettiva: questa dimensione condiziona la natura stessa etica del lavoro. Non c’è dubbio, infatti, che il lavoro umano ha un valore etico proprio [in labore humano vis ethica insit], che rimane chiaramente e direttamente legato al fatto che chi lo svolge è una persona, un soggetto cosciente e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso [de se ipso deliberans].

Questa verità, che in un certo senso costituisce il cuore fondamentale e perenne dell’insegnamento cristiano sul lavoro umano…

 

E si chiarisce nella spiegazione del bene del lavoro, in sec. 9:

…in quanto tale, [il lavoro] è un bene per l’uomo. Non è solo un bene nel senso che è utile o qualcosa di cui godere; è anche un bene come qualcosa di degno, cioè come qualcosa che corrisponde alla dignità dell’uomo, che esprime questa dignità e la aumenta. Se si vuole definire più chiaramente il significato etico del lavoro, è questa verità che si deve tenere particolarmente presente. Il lavoro è un bene per l’uomo – un bene per la sua umanità – perché attraverso il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura, adattandola alle proprie esigenze, ma raggiunge anche la realizzazione come essere umano e, in un certo senso, diventa “più un essere umano”.

 

Questo “perfezionare, realizzare, sviluppare se stessi” [se ipsum perficiens] è un tema della trattazione del lavoro nella Gaudium et Spes 35 del Vaticano II (citata nel sec. 26 di Laborem Exercens):

“Come l’attività umana procede dall’uomo, così essa è ordinata verso l’uomo. Perché quando un uomo lavora non solo altera le cose e la società, ma sviluppa anche se stesso. Impara molto, coltiva le sue risorse, va al di fuori di sé e oltre se stesso. Giustamente inteso, questo tipo di crescita ha un valore maggiore di qualsiasi ricchezza esterna che si possa raccogliere … Quindi, la norma dell’attività umana è questa: che, secondo il piano divino [consilium] e la volontà, essa si armonizzi con il bene genuino del genere umano [genuino humani generis bono], e permetta alle persone come individui e come membri della società di perseguire la loro vocazione totale [ integrae suae vocationis] e di realizzarla”. 

Non sarebbe una sorpresa sapere che l’arcivescovo Wojtyla nel 1964-65 ha avuto un input in quella parte della Gaudium et Spes, e certamente è una parte che si riflette nel capitolo centrale del suo libro The Acting Person, pubblicato originariamente nel 1969.  Per quel capitolo, infatti, inizia con la proposizione che “lo svolgimento di un’azione porta a compimento”, e con il commento: “Tutti i problemi essenziali considerati in questo studio sembrano essere concentrati e condensati nella semplice affermazione del compimento di un’azione”. E allo stesso tempo l’autore ci invita a notare che l’idea di “compimento in un’azione” si basa sulla “nostra precedente discussione sulla trascendenza della persona nel compiere un’azione”.

Che cos’è questa trascendenza della persona da parte della persona?   Sembra ricordare l’affermazione di Gaudium et Spes 35 che nell’attività l’uomo va al di fuori di se stesso e oltre se stesso [extra se e supra se].   Né l’affermazione né l’idea sono mera poesia o metafora.  La trascendenza che Wojtyla ha spesso in vista e che chiama regolarmente “trascendenza verticale”.  E la sua distinzione tra trascendenza orizzontale e verticale corrisponde (è equivalente) alla sua distinzione tra razionalità oggettiva e soggettiva del lavoro, e alla sua distinzione tra gli aspetti transitivi e intransitivi dell’azione.  Ripeto: la trascendenza orizzontale è ciò che il rapporto oggettivo del lavoro cerca e l’aspetto transitivo dell’azione è destinato a raggiungere.   Così come percepiamo e conosciamo gli oggetti, in un certo senso ci mettiamo al di fuori di noi stessi, così anche noi ci mettiamo al di fuori di noi stessi con l’intenzione e la volontà di (scegliere) oggetti (compresi gli eventi e gli stati di cose) al di là di noi stessi o, più strettamente, al di là della nostra volontà.

La trascendenza verticale, invece, è il fatto dell’autodeterminazione.  Come persona, si trascendono i propri confini strutturali per la propria capacità di esercitare la libertà.  Questa trascendenza è “associata all’autogoverno e al possesso di sé”.  Si tratta della propria “ascendenza sui [propri] dinamismi”, su tutti i dinamismi naturali del corpo e della mente (soma e psiche), su tutti i dinamismi naturali dell’emozione e del desiderio e dell’avversione che sono di per sé solo cose che accadono in se stessi o che accadono a se stessi (cioè che avvengono in me) e non sono io che agisco – anche se mi appartengono tanto quanto mi appartiene il dinamismo stesso dell’azione.  Quando agisco, essi si integrano in quel tipo superiore di dinamismo e ne ricevono un nuovo significato e una nuova qualità che è propriamente personale.

Lasciatemi spiegare con parole mie cosa intendo per “trascendenza verticale” in La persona che agisce (e quindi anche per “rapporto soggettivo di lavoro” in Laborem Exercens).  La libera scelta (ciò che la Persona che agisce chiama libero arbitrio) è più, molto più di ciò che gli antichi e i moderni post-cristiani comprendono con la libertà di scelta: libertà dalla costrizione e libertà di fare come si vuole.  Ciò che, invece, si presuppone nel Deuteronomio 30. 18 (“Vi pongo davanti la vita o la morte, la benedizione o la maledizione: scegliete la vita”) o nell’Ecclesiastico [Siracide] 15. 14 (“Quando Dio in principio creò l’uomo, lo rese soggetto alla sua libera scelta: se vuoi puoi osservare i comandamenti”), e in tutto il Vangelo, e nei riferimenti alla libertà di Giovanni Paolo II, è questo: Posso scegliere tra opzioni/proposte alternative che ho modellato nella deliberazione, alternative aperte in quanto non c’è nessun fattore, se non la mia scelta che regola quale alternativa scelgo – nessun fattore, sia che si tratti di un sistema di desideri o di preferenze (come vorrebbe il tipico filosofo angloamericano), o di “geni egoisti”, o la ragionevolezza superiore o la rettitudine morale di un’alternativa e l’ingiustizia dell’altra (o delle altre), o qualsiasi altra “ragione sufficiente”.  Così le mie libere scelte – proprio perché non sono il prodotto di ciò che c’era nei miei desideri, nelle mie preferenze, nelle mie abitudini… o in altri dinamismi simili – creano.  Questa creatività di scelta è l’essenza di ciò che Laborem Exercens chiama trascendenza.  E già troviamo il titolo della sezione 3 del capitolo 3 di The Acting Person: “Il libero arbitrio [è] la base della trascendenza della persona che agisce”.

Nel comprendere questa creatività, comprendiamo anche ciò che La Persona che agisce chiama l’intransitività dell’azione.  Ancora una volta, con parole mie: le proprie libere scelte stabiliscono, creano la propria identità o il proprio carattere – non, naturalmente, la propria identità come maschio o femmina, o (in qualche modo diverso) come schiavo o libero, identità che non sono in potere di scegliere per se stessi.  Quindi le scelte non sono solo transitive, ma transitano dalla propria volontà al proprio comportamento e alla propria efficacia nel plasmare le cose e gli eventi del mondo.  Sono anche intransitive, ogni libera scelta è un atto con il quale, volenti o nolenti, io che scelgo mi considero la persona che sarò d’ora in poi, come la persona che rimarrò, a meno che e fino a quando (se mai) non mi pentirò di quella scelta, sia formalmente per contrizione e decisione di modificare i miei modi, sia informalmente rendendo una nuova scelta incompatibile con la precedente.

Siamo così giunti a un altro tema distintivo dell’analisi dell’azione in The Acting Person: quello che quel libro chiama la persistenza delle azioni.

Nella dimensione interiore della persona, l’azione umana è al tempo stesso transitoria e relativamente duratura, in quanto i suoi effetti, che vanno visti in relazione all’efficacia e all’autodeterminazione, cioè all’impegno della persona nella libertà, durano più a lungo dell’azione stessa.  L’impegno nella libertà è oggettivato… nella persona e non solo nell’azione, che è l’effetto transitivo.   Le azioni umane, una volta compiute, non svaniscono senza lasciare traccia: lasciano il loro valore morale, che costituisce una realtà oggettiva intrinsecamente coesiva con la persona, e quindi una realtà anche profondamente soggettiva…

 

Intervengo per fare due osservazioni interpretative.  In primo luogo, penso che “valore morale” qui equivalga a “valore etico” in Laborem Exercens 6, citato sopra.  In secondo luogo, penso che il termine “oggettivo” nella frase appena citata di The Acting Person non corrisponda a “oggettivo” come lo vedevamo in Laborem Exercens 4, ma piuttosto al significato di “oggettivo” che semplicemente intensifica il predicato “vero”, “reale”, “reale”, “realmente” ecc.  Ma quando continua “anche profondamente soggettivo” anticipa il linguaggio di Laborem Exercens 4.  (Così c’era qui, a quanto pare, una sorta di gioco di parole su “oggettivo”):

È nella modalità della moralità che questa oggettivazione diventa chiaramente evidente, quando attraverso un’azione che è moralmente buona o moralmente cattiva, l’uomo, come la persona, diventa egli stesso moralmente buono o moralmente cattivo.  In questo modo si comincia a intravedere il significato dell’affermazione che “compiere l’azione porta a compimento”.  Implicito nell’intenzionalità del volere e dell’agire, nel msn che si estende all’esterno di se stesso verso gli oggetti che gli vengono presentati come beni vari – e quindi valori – ecco il suo simultaneo rientro nel suo ego, l’oggetto più vicino ed essenziale dell’autodeterminazione.  A causa dell’autodeterminazione, un’azione raggiunge e penetra nel soggetto, nell’io, che è il suo oggetto primario e principale.

 

Questa spiegazione di ciò che Laborem Exercens chiamerà il rapporto soggettivo tra lavoro e azione (e che gli scritti filosofici chiamano l’aspetto intransitivo dell’azione) spiega il soggetto (chi sceglie e chi compie) come oggetto, l’oggetto intransitivo, della scelta e del fare (la scelta e l’azione).  Ciò corrisponde al senso in cui, come dice ripetutamente Laborem Exercens, si delibera su se stessi, deliberatamente de se ipso.  È elaborato nel cap. 3 di La persona che agisce:

la persona è, per autodeterminazione, un oggetto per se stessa, essendo in modo particolare il bersaglio immanente su cui si concentra l’esercizio di tutti i suoi poteri da parte dell’uomo, in quanto è lui la cui determinazione è in gioco. Egli è, in questo senso, l’oggetto primario o l’oggetto più vicino della sua azione.

Ogni atto effettivo di autodeterminazione rende reale la soggettività dell’autogoverno e del possesso di sé; in ciascuno di questi rapporti strutturali interpersonali si dà alla persona come soggetto – come colui che governa e possiede – alla persona come oggetto – come colui che è governato e posseduto. Questa oggettività è, come si può vedere, il correlato della soggettività e della soggettività della persona,

Inoltre, sembra far emergere in modo specifico la soggettività stessa.

 

E poi dice che il soggetto non è solo l’oggetto primario e più vicino alla sua azione, ma è anche l’oggetto fondamentale, più diretto e più intimo.

Ma queste affermazioni, come il parlare di deliberare de se ipso (su se stessi) non vanno considerate come l’adesione a nessuna teoria – chiamatela teoria dell’opzione fondamentale – che sostiene che ci si dispone di se stessi solo attraverso un’opzione fondamentale che non è una scelta di fare questo o quel particolare atto, ma in qualche modo una scelta radicale per se stessi o per Dio, una “totale disposizione” del sé “nel profondo del sé” dove (dicono questi teorici) il sé è “totalmente presente a se stesso”. ..in modo che nessuna scelta o atto particolare possa essere detto di per sé un peccato mortale.  La teoria di Giovanni Paolo II dell’oggetto intransitivo dell’azione è infatti radicalmente opposta a quella dell’opzione fondamentale.  Infatti, proprio nel mezzo della sua insistenza sulla immediatezza e immediatezza di quell’oggetto intransitivo, e sull’Io come oggetto intransitivo, egli fa l’avvertenza essenziale (condizione):

Tuttavia, l’oggettivazione del soggetto non ha un carattere intenzionale nel senso in cui l’intenzionalità si trova in ogni volontà umana. Quando voglio, desidero sempre qualcosa. La volontà indica una svolta verso un oggetto, e questa svolta determina il suo carattere intenzionale. Per volgersi intenzionalmente verso un oggetto mettiamo l’oggetto, per così dire, davanti a noi (o ne accettiamo la presenza). ….nell’autodeterminazione non ci rivolgiamo all’ego come oggetto, ma imprimiamo l’attualità all’oggettività, per così dire, pronta all’oggettività dell’ego che è contenuta nella relazione intrapersonale di autogoverno e di possesso di sé. Questa trasmissione dell’attualità è di fondamentale importanza nella morale, quella dimensione specifica dell’esistenza umana e personale che è allo stesso tempo soggettiva e oggettiva. È lì che tutta la realtà della morale, dei valori morali, ha le sue radici…

L’oggettivazione che è essenziale per l’autodeterminazione avviene insieme all’intenzionalità degli atti particolari della volontà.  Quando voglio qualcosa, allora anch’io sono determinato da me stesso. Anche se l’ego non è un oggetto intenzionale di volontà, il suo essere obiettivo è contenuto nella natura degli atti di volontà. È solo così che la volontà diventa autodeterminazione.

 

E i riferimenti di Laborem Exercens al deliberare e decidere de se ipso hanno un’implicazione simile: questo deliberare non è un qualche misterioso atto di auto-disposizione in cui l’obiettivo stesso inteso è la totale auto-disposizione davanti a Dio.  Piuttosto, il deliberare de se ipso è la stessa deliberazione che precede ogni libera scelta, per esempio, la scelta di impegnarsi in questo specifico lavoro o progetto – per esempio, del mio dare o del tuo ascoltare questa lezione – e di farlo bene, per questo o quello scopo.  La deliberazione de se ipso è un’implicazione di ogni scelta seria; per ogni scelta seria, per quanto specifica sia il suo argomento, è volentieri un’autodisposizione, una formazione del carattere, una (parziale) creazione (o rafforzamento, o distruzione) del carattere – e dura oltre il tempo dell’azione e, essendo una realtà spirituale, può durare nell’eternità.  Così finisce tutta la sezione sul rapporto soggettivo del lavoro (Laborem Exercens 6):

in ultima analisi è sempre l’uomo lo scopo dell’opera, qualunque sia il lavoro che l’uomo compie – anche se la scala di valori comune lo considera il più meramente “servizio”, il più monotono, anche il più [emarginante] lavoro.

 

In “Human Acts”, un mio intervento tenuto a Roma, in occasione di un Congresso di Teologia morale nel 1986, ripubblicato nel secondo volume dei miei Saggi raccolti, ho dedicato alcune pagine ai teologi (ho citato Timothy O’Connell e Josef Fuchs) che-

…negare di poter conoscere se stessi e di poter riflettere sulle proprie scelte e sulle proprie azioni. Propongono un resoconto della persona, e della conoscenza, secondo cui il sé è una realtà radicalmente insensibile a molte scelte e azioni completamente libere, una realtà che, a differenza della scelta e dell’azione, rimane inaccessibile sia alla coscienza che alla conoscenza riflessiva.

 

Alla fine della mia esposizione e della mia critica (pp. 134-136 di quel volume) riassumo dicendo:

Rifiutando così un’epistemologia dominata dall’immagine di uno sguardo, o di uno sguardo, o di un confronto, ci ricongiungiamo alla metodologia perenne: ciò che è conosciuto è conosciuto nella misura in cui è in atto; il carattere dell’anima è conosciuto dalle capacità dell’anima, ma queste capacità sono conosciute da e nelle loro attuazioni. E, più specificamente, [secondo le parole di Wojtyla, La persona che agisce, p. 11] l’azione costituisce il momento specifico in cui la persona si rivela. L’azione ci dà la migliore comprensione dell’essenza intrinseca della persona e ci permette di comprendere la persona nel modo più completo.

  1. Redemptor Hominis (1979)

Il primo paragrafo di questa prima enciclica di Giovanni Paolo II, che si apre con le parole “Il Redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il centro dell’universo e della storia”, chiude il paragrafo citando quel Redentore: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”.  Oggi parlerò solo dell’antropologia dell’azione dell’enciclica, come appare dalla frase ripetuta del documento “intelletto, volontà, coscienza e libertà” (sec. 12), “… la libertà è radicata nell’anima dell’uomo, nel suo cuore e nella sua coscienza” (12); “parliamo di ogni uomo in tutta l’irripetibile realtà di ciò che è e di ciò che fa, del suo intelletto e della sua volontà, della sua coscienza e del suo cuore” (24); ” la sfera più profonda dell’uomo … la sfera del cuore, delle coscienze e degli eventi umani” (10).  Cosa sono l’intelletto, la volontà, la coscienza e il cuore?

Nel Nuovo Testamento, in linea con l’Antico, kardía (latino cor) significa la sede, il centro o la fonte della vita fisica, spirituale e mentale, di tutta la “vita interiore” del pensiero, del sentimento e della volontà, spesso presa in modo inclusivo, ma in contesti specifici specificati per (a) pensare, comprendere, pensare, dubitare e così via, oppure (b) volere e decidere, essere tentati, e così via, soprattutto decisioni o scelte moralmente significative e le loro conseguenze, purezza di cuore o cuori colpevoli; o (c) desideri, emozioni, amori, risentimenti e così via.  San Tommaso esamina alcuni testi strategici come il Salmo 84. 2(3), cor meum et caro mea exultaverunt e assegna il cor all’appetito intellettuale, il caro (“carne”) all’appetito sensibile.  Ma se si considerano le varianti elencate nel Deuteronomio 6, in Matteo 22, in Marco 12 e in Luca 10 sulla chiamata all’amore con “cuore, anima, mente, forza/poteri”, egli dice senza esitazione che, poiché l’amore [dilectio] è un atto di volontà, il cor corrisponde alla volontà, soprattutto all’intenzione di fini, soprattutto al fine ultimo; e che “mente” è una questione di intelletto, mossa dalla volontà, e “anima” è l’appetito (o gli appetiti) inferiore, mentre “forza” significa i poteri esecutivi esterni alla propria volontà interiore, desiderio, comprensione . ..  Avrebbe potuto dare più rilievo a quei fondamentali detti del Signore, raccontati in Matteo 15 e in Marco 7 – con interessanti varianti che illustrano il ricorso di ciascuno alla memoria e alla predicazione orale apostolica [testimone oculare], non alla rielaborazione del testo dell’altro – quando spiega ai suoi stretti discepoli la sua polemica con i farisei che denunciavano l’incapacità di lavarsi prima di mangiare: è dal di dentro, dal cuore, che vengono azioni immorali, azioni plasmate nel e dal cuore (Matteo 15. 1-20 esp. 18-19; Marco 7. 1-23 esp. 21)

Quindi penso che dovremmo capire Redemptor Hominis in questo modo. L’intelletto e la volontà sono gli elementi essenziali nelle scelte e nelle azioni autodeterminanti, nelle scelte e nelle azioni.  Il “cuore” include questi elementi ma non è ridondante, perché include anche la vita di emozioni e sentimenti che accompagna ogni comprensione e volontà umana, un po’ come le immagini accompagnano ogni pensiero matematico umano, anche se il matematico sa che non sono ciò che viene considerato e in parte travisano ciò che viene considerato – una linea che può essere vista o immaginata non può essere ciò che una linea viene definita: lunghezza senza ampiezza.  Anche se Veritatis Splendor 54 tratterà il “cuore” come un nome per la coscienza, nella Redemptor Hominis “coscienza”, quell’importante parola del Nuovo Testamento messa in circolazione da Pietro e Paolo, è essenzialmente, e più specificamente, la comprensione delle proposte di azione che la comprensione deliberativa forma come opzioni, per scegliere tra.  Ma la coscienza è una comprensione specialistica: una comprensione che misura quelle proposte contro i criteri di onestà, giustizia e altri elementi di ragionevolezza integrale (prudentia), e in definitiva con riferimento a quali orientamenti della propria volontà sono o non sono aperti alla realizzazione umana integrale.

Non possiamo infatti comprendere l’etica, o un progetto come La persona che agisce, o un progetto più completo come Veritatis Splendor, a meno che non si entri nel punto di vista non degli osservatori, ma della persona che decide e sceglie se stessa – di se stessa, del proprio pensare cosa fare, e decidere/scelta cosa fare (se lo si è giudicato moralmente buono o giudicato moralmente cattivo, “in coscienza”).  Questo punto di vista ha il nome accademico di “punto di vista interno”.  È quello a cui si fa riferimento in un punto chiave di Veritatis Splendor 78: 

La moralità dell’atto umano dipende principalmente e fondamentalmente da

l'”oggetto” razionalmente scelto dalla volontà deliberata, come testimonia la penetrante analisi, ancora oggi valida, fatta da san Tommaso. Per poter cogliere [capire] l’oggetto di un atto che specifica quell’atto moralmente, è quindi necessario porsi nella prospettiva della persona che agisce. … quell’oggetto è la fine prossima di una decisione deliberata [delectionis; un choix] che determina [= regola] l’atto di volontà da parte della persona che agisce.  (corsivo in originale)

 

Si può e si deve arrivare a dire che come persona che agisce si ha, nell’atto di scegliere, una conoscenza infallibile dell’oggetto, cioè di ciò che si sta scegliendo, anche se anche un attimo dopo si può aver in parte dimenticato o iniziato a travisare a se stessi ciò che si è scelto.

Avrete notato che io uso sempre il pronome “uno” in inglese, non alla maniera americana: è in prima persona, equivalente nel significato a “io”.  Questo uso in prima persona è il modo migliore – anzi l’unico modo sicuro – per presentare, comprendere e analizzare gli atti di una persona che agisce o genericamente della persona che agisce: così come sono compresi e creati da quella persona (nel bene e nel male).  “Nella prospettiva della persona che agisce…”.

  1. Veritatis Splendor (1993)

Questa enciclica è significativa soprattutto come dottrinale, magisteriale, apostolica.  Ma è anche teologica.  E come tutta la sana teologia (come dirà l’enciclica Fides et Ratio cinque anni dopo), essa cerca consapevolmente di essere anche sana filosofia.  Mi sembra – ma questo è certamente aperto alla discussione e a un’informazione migliore di quella che io comando – che l’originale concezione della Persona che agisce come “un tentativo di costruire l’etica cattolica sulla base della filosofia di Scheler” sia la prova di due cose.  In primo luogo, che Karol Wojtyla considerava che le presentazioni neoscolastiche tomiste dell’etica che gli erano familiari erano carenti nel non adottare, o non sufficientemente, il punto di vista interno – il punto di vista della persona che agisce – nell’esporre la struttura della persona umana e dell’azione umana liberamente scelta.  Così si è recato altrove, a Scheler, nella speranza di trovare più interiorità, conformandosi così almeno implicitamente al metodo attuale di San Tommaso, riconoscendo che un’adeguata conoscenza critica delle azioni precede, nell’ordine epistemologico, un’adeguata conoscenza critica della natura, in questo caso della natura e della struttura umana.  

E in secondo luogo, il ricorso alla filosofia di Scheler è stato di poco o di nessun aiuto – anzi, mi azzardo a pensare a una distrazione – nel recuperare ciò che i neoscolastici avevano perduto: una comprensione accurata dei beni umani veramente intelligenti e intelligibili che sono ciò a cui ci indirizzano i primi principi di comprensione pratica e di ragione – come ha esposto san Tommaso, anche se non con una chiarezza espositiva senza macchia, nel q. 94 aa. 2 e 3 del Prima Secundae.  Parlare di “compimento nelle nostre azioni”, come fa fin dall’inizio la Persona che agisce, è implicitamente parlare di beni umani (come abbiamo visto nel passo citato al n. 13 di cui sopra, da p. 150).  Ma molto restava da esplicitare e da difendere criticamente. Il progetto di Veritatis Splendor, annunciato nel 1987 e portato a termine sei anni e sei giorni dopo, ma certamente meditato prima e più a lungo, ha richiamato Giovanni Paolo II a un’esposizione articolata, seppur incompleta, di quei fondamenti dell’etica.

Il secondo dei tre capitoli di Veritatis Splendor – il più lungo, dalla sezione 28 alla sezione 83 – tratta in sequenza quattro principali correnti di pensiero che convergono sul dissenso dal costante insegnamento morale della Chiesa.  

La prima delle quattro correnti riguarda in generale le nozioni di autonomia o di libertà, in relazione alle idee cristiane di libertà umana, alla legge divina e naturale e alla natura umana.  Un elemento di questa corrente riguarda la — 

negazione dell’esistenza, nella Rivelazione divina, di un contenuto morale specifico e determinato, universalmente valido e permanente. La parola di Dio si limiterebbe a proporre un’esortazione, una generica paraenesi [predicazione esortativa] che la sola ragione autonoma avrebbe poi il compito di completare con direttive normative veramente “oggettive”, cioè adeguate alla situazione storica concreta… [ma che non fanno parte del contenuto proprio della rivelazione e non sarebbero di per sé rilevanti per la salvezza]. (sec. 37)

 

A ciò si collega l’idea che non esiste una legge divina e naturale, propriamente detta, se non la legge dell’amore (di Dio e del prossimo), al di là della quale la Chiesa non ha nulla di preciso da insegnare sulla condotta umana, e ci dà solo esortazioni e orientamenti o ideali.  Le relative sotto-correnze di dissenso sostengono che l’insegnamento morale della Chiesa usa un concetto di natura antiquato e falso, ed è fisicalista o biologista piuttosto che veramente umano e ragionevole.  Contro tutto ciò, l’enciclica difende l’umanità e la ragionevolezza, così come il carattere divinamente rivelato, ratificato da Cristo, della legge morale naturale che esige il rispetto in ogni scelta e atto per i beni fondamentali della natura umana.

A questi beni fondamentali dell’uomo si faceva già riferimento nel primo capitolo dell’enciclica, nella meditazione della sezione 13 sulla risposta di Cristo all’uomo che chiedeva cosa doveva fare per ereditare la vita eterna, una risposta che richiamava l’uomo ai Comandamenti:

I diversi comandamenti del Decalogo sono in realtà solo tante riflessioni dell’unico comandamento sul bene della persona, a livello dei tanti beni diversi che caratterizzano la sua identità di essere spirituale e corporeo in relazione con Dio, con il prossimo e con il mondo materiale….

 comandamenti, che Gesù ricorda al giovane, hanno lo scopo di salvaguardare il bene della persona, immagine di Dio, proteggendo i suoi beni. “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non rendere falsa testimonianza” sono regole morali formulate in termini di divieti. Questi precetti negativi esprimono con particolare forza la necessità sempre più urgente di proteggere la vita umana, la comunione delle persone nel matrimonio, la proprietà privata, la veridicità e il buon nome delle persone. 

I comandamenti rappresentano quindi la condizione fondamentale per l’amore del prossimo…

 

“La vita umana, la comunione delle persone nel matrimonio, la proprietà privata, la veridicità e il buon nome delle persone”: è un elenco di beni umani fondamentali che, come elenco, non è chiaramente né pienamente chiarito e stabilizzato filosoficamente, né esaustivo.  Ma è un valido indicatore della necessità, e aggiungerei la disponibilità, di un elenco così chiarito e adeguato.

Dopo aver alluso nel sec. 44 alla “dottrina tomistica della legge naturale” come qualcosa di a lungo “incluso” nell’insegnamento della Chiesa sulla moralità, Veritatis Splendor ritorna nel sec. 48 ai beni fondamentali che (anche se l’enciclica non lo dice) sono oggetto dell’insegnamento di Tommaso sui primi principi della legge naturale (ancora una volta I-II q. 94 a. 2…).  Nel sec. 48, Giovanni Paolo II si confronta direttamente con quella corrente di pensiero teologico che accusa la dottrina cristiana sul sesso e sul matrimonio e sulla vita umana di confondere le leggi biologiche con le leggi morali – fisicalismo, biologismo, e così via (sec. 47 e 48.2).  Parte di una risposta complessa dice:

È alla luce della dignità della persona umana – una dignità che deve essere affermata per se stessa – che la ragione coglie il valore morale specifico di certi beni verso cui la persona è naturalmente incline.  E poiché la persona umana non può essere ridotta a una libertà che è autoprogettazione, ma comporta una particolare struttura spirituale e corporea, l’esigenza morale primordiale di amare e rispettare la persona come fine e mai come mero mezzo implica, per sua natura, anche il rispetto di alcuni beni fondamentali…. (par. 48. 3)

 

Non è il fatto di essere naturalmente inclini a questi beni che li rende moralmente normativi, ma piuttosto la verità che gli oggetti di tali inclinazioni, oggetti come la vita e la comunione coniugale (il matrimonio), sono elementi intrinseci della propria dignità umana come essere – persona – inseparabilmente sia corpore et anima unus:

… le inclinazioni naturali assumono rilevanza morale solo nella misura in cui si riferiscono alla persona umana e al suo autentico compimento, un compimento che per questo può avvenire sempre e solo nella natura umana. (50)

 

Quando il q. 94 a. 2 del Prima Secundae viene trascritto e tradotto in modo critico, troviamo che San Tommaso ha già identificato il matrimonio – non il rapporto sessuale o la procreazione – come il bene umano fondamentale che dovrebbe essere elencato dopo la vita e la salute.

 

Circa la seconda e la terza delle quattro correnti di opinioni teologiche errate, questo pomeriggio dirò molto poco.  La seconda riguarda la coscienza, ripresa in sec. 54-64.   Nessun insegnante che abbia identificato un corso di condotta o un tipo di azione come veramente sbagliato può poi aggiungere razionalmente: “Ma se nella vostra coscienza giudicate che non sia sbagliato per voi, non è sbagliato per voi”.  Un tale vescovo o un altro insegnante non fa che contraddire se stesso, e con ogni probabilità è solo in malafede, cercando invano di nascondere il fatto che non crede a ciò che professa di insegnare.  Ma alla luce di quanto si dice sulla coscienza e in relazione ad Amoris Laetitia sec. 303 (e sec. 37, 298 e 304) – che la coscienza di un individuo che si confronta con il comandamento divino e evangelico contro l’adulterio può “riconoscere con sincerità e onestà quella che per ora è la risposta più generosa che si può dare a Dio, e venire a vedere con una certa sicurezza morale che essa [ha capito: portare avanti l’adulterio in un civile preteso secondo matrimonio] è ciò che Dio stesso chiede in mezzo alla concreta complessità dei propri limiti, pur non essendo ancora pienamente l’ideale oggettivo” (AL 303) – è giusto notare la descrizione del falso insegnamento di san Giovanni Paolo II nella Veritatis Splendor sec. 56:

…alcuni autori hanno proposto una sorta di doppio status di verità morale. Al di là del livello dottrinale e astratto, si dovrebbe riconoscere la priorità di una certa considerazione esistenziale più concreta che, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente essere alla base di alcune eccezioni alla regola generale e permettere così di fare nella pratica e in buona coscienza ciò che la legge morale qualifica come intrinsecamente malvagio. Si stabilisce così, in alcuni casi, una separazione, o addirittura un’opposizione, tra l’insegnamento del precetto, valido in generale, e la norma della coscienza individuale, che prenderebbe di fatto la decisione finale su ciò che è bene e ciò che è male. Su questa base, si cerca di legittimare soluzioni cosiddette “pastorali” contrarie all’insegnamento del Magistero, e di giustificare un’ermeneutica “creativa” secondo la quale la coscienza morale non è in alcun modo obbligata, in ogni caso, da un particolare precetto negativo. Nessuno può non rendersi conto che questi approcci mettono in discussione l’identità stessa della coscienza morale in relazione alla libertà umana e alla legge di Dio.

 

I paragrafi da 57 a 64 (e il 117) offrono una lunga e attenta confutazione di questo errore corrosivo,  

La terza corrente è l’affermazione che nulla conta moralmente, o conta per la salvezza, se non l'”opzione fondamentale” di una persona per il Bene, o il bene in generale, un’opzione che si riflette solo in modo imperfetto, e mai in modo definitivo, nelle proprie scelte e azioni specifiche o particolari.  A questo Giovanni Paolo risponde (parafrasi) che la vera opzione fondamentale è la fede, una scelta fondamentale con la quale l’uomo è effettivamente 

capace di dare la direzione della sua vita e di progredire, con l’aiuto della grazia, verso la sua fine, seguendo la chiamata di Dio.  Ma questa capacità si esercita in realtà nelle scelte particolari di azioni specifiche, attraverso le quali l’uomo si conforma deliberatamente alla volontà, alla sapienza e alla legge di Dio. 

 

Così l’opzione fondamentale è “revocata quando l’uomo impegna la sua libertà in decisioni consapevoli contrarie, per quanto riguarda la materia moralmente grave”. (67)

 

La quarta corrente è la corrente più attentamente identificata e discussa, e specificamente condannata formalmente e per due volte, in Veritatis Splendor, dove viene chiamata “proporzionalismo” o “teleologismo”; si potrebbe anche chiamarlo consequenzialismo (per usare il termine coniato con successo e di aiuto da Elizabeth Anscombe).   Solo a partire dalla fine del 1968 i teologi cattolici hanno cominciato a negare, pubblicamente e con argomentazioni più o meno filosofiche, che esista un precetto morale (naturale o rivelato) che escluda assolutamente un tipo di azione specificabile (identificabile) solo in riferimento ai suoi elementi intenzional-comportamentali – un tipo di azione come l’uccisione di una persona innocente, l’apostasia, gli atti sessuali con una persona con cui non si è sposati – dove l’identificazione o la specificazione non dipende da una preventiva valutazione morale di tali azioni come ingiuste, I teologi e i pastori dissenzienti ma numerosi che si sono confrontati nella Veritatis Splendor hanno affermato che i precetti della moralità vera e cristiana non proibiscono tale azione se non quando essa è, nelle circostanze (situazione), sproporzionata, cioè sembra, in quelle circostanze, suscettibile di causare, nel complesso e a medio o lungo termine, più male umano (pre-morale) che bene umano (pre-morale) – e quindi è, nelle circostanze particolari pertinenti, ingiusta, incolta, smodata o simili. .   Secondo questa linea di pensiero, un’azione particolare non può essere giudicata (o valutata in coscienza) come sbagliata, nelle circostanze, fino a quando non si siano soppesate tutte le motivazioni e le circostanze della persona che agisce (comprese le probabili conseguenze globali e a lungo termine) – e quindi la sua erroneità è semplicemente la sua sproporzionata nocività o la sua probabile nocività rispetto ai “valori” o ai beni umani moralmente rilevanti.  Senza una tale valutazione individualizzata della proporzionalità, nessun precetto o “comandamento” generale può essere veramente più di un richiamo a valori e ideali o orientamenti importanti per considerare ciò che l’amore di Dio e del prossimo richiede nella situazione in cui si deve valutare la scelta di compiere o meno un determinato atto (di sesso non coniugale, aborto, eutanasia…).  Questa valutazione, ripeto, deve essere fatta, hanno detto questi teologi, alla luce delle proporzioni di bene e di male, di valore e di disvalore, prevedibili nei probabili risultati complessivi e a lungo termine delle alternative – di impegnarsi o, in alternativa, di non impegnarsi in quell’atto in quella (specie di) situazione.

Così questi teorici hanno accettato le etichette di “proporzionalista” o “teleologico” perché la “ragione proporzionata” per scegliere un atto – anche un atto di un tipo finora giudicato intrinsecamente immorale – è che la scelta e il fare così ha, e sembra probabile (nelle circostanze) raggiungere, il telos, lo scopo o l’obiettivo, di fare un bene maggiore o almeno un male minore nel complesso, netto e a lungo termine.

Già nella sua risposta alla prima corrente torna nel sec. 52, Veritatis Splendor aveva distinto tra precetti negativi e positivi, e riaffermava l’insegnamento di san Tommaso che solo i precetti morali negativi ci dirigono in modo decisivo o senza eccezioni, sempre e in ogni occasione, senza eccezioni, verso di noi semper et pro semper.   I precetti affermativi se veri sono sempre in gioco, ma la loro applicazione è sempre relativa alle circostanze – ci dirigono semper sed non pro semper [sempre ma non in ogni occasione]. I precetti negativi che identificano e proibiscono gli atti intrinsecamente malvagi non dicono semplicemente che è sbagliato agire in contrasto con una virtù – per esempio, uccidere ingiustamente, o compiere un atto sessuale non casto o impuro.  Piuttosto, questi precetti escludono, senza eccezioni (sec. 52, 67, 76 e 82), comportamenti “specifici”, “concreti”, “particolari” (cfr. 49, 52, 70, 77 e 79-82).  Questi tipi di comportamento sono esclusi dai relativi precetti morali negativi (e sono contrari alla virtù) senza essere prima identificati dalla loro opposizione alle virtù, e senza considerazione delle circostanze particolari, e senza riguardo alle buone intenzioni che qualcuno può avere per scegliere di intraprendere un comportamento di questo tipo.

E in linea con la sua filosofia d’azione, che nella sua essenza è anche quella di San Tommaso, Giovanni Paolo II qui chiarisce che parlando di comportamento non si intende un comportamento che potrebbe essere tenuto anche da qualcuno incapace di fare una libera scelta – performance che potrebbero essere registrate su una videocamera.  Piuttosto, nello spiegare cosa si intende per “oggetto di un dato atto morale”, egli chiarisce che qui, quando si parla di comportamento, si intende proprio il possibile oggetto di scelte deliberate o libere, il comportamento previsto dal soggetto che sceglie.   Ho già citato il passo, e lo ripeto ora:

Per poter cogliere l’oggetto di un atto che specifica quell’atto moralmente, è quindi necessario porsi nella prospettiva della persona che agisce. L’oggetto dell’atto di volontà è infatti un comportamento liberamente scelto. …. Per oggetto di un determinato atto morale, quindi, non si può intendere un processo o un evento di ordine meramente fisico, da valutare sulla base della sua capacità di determinare un determinato stato di cose nel mondo esterno. Tale oggetto è piuttosto la fine prossima di una decisione deliberata che determina l’atto di volontà della persona che agisce. (par. 78)

 

In breve: il comportamento è di tipo moralmente rilevante in virtù della descrizione che ha nella deliberazione di una persona che potrebbe scegliere di farlo.  

Questi paragrafi di Veritatis Splendor riprendono la terminologia classica utilizzata da San Tommaso, ma anche liberamente derogata: intenzione, oggetto, circostanze.  La chiave per capire questo è che “intenzione” e “oggetto” si correlano con “fine” e “mezzo”: si intende compiere qualche atto o risultato X facendo Y, cioè per mezzo di Y. Qui “mezzo” si riferisce non a qualche strumento ma a qualche azione (magari usando uno strumento).  E così abbiamo l’insieme delle relazioni già esposte da Aristotele nella sua Metafisica e da Tommaso d’Aquino nel suo Commento alle frasi: insomma, tutti i fini (tranne il più ultimo) sono anche mezzi, e tutti i mezzi (tranne il più iniziale: iniziare a flettere i muscoli…) sono anche fini.  Quindi c’è solo una distinzione relativa tra l’intenzione (che è, per definizione, “dei fini”) e l’oggetto (che è, per definizione, il “mezzo scelto”).  Talvolta l'”intenzione” è usata in senso lato per includere gli “oggetti”, come nella famosa discussione di San Tommaso sull’autodifesa, in cui egli lancia la nozione di effetto duplex – risultati che sono intesi o come fine o come mezzi, e risultati che, nel piano e nella proposta della persona che agisce non sono né fini né mezzi, ma sono previsti e accettati come effetti collaterali. In questo ampio senso di “intenzione”, gli oggetti di un atto scelto sono le intenzioni vicine della persona che lo ha scelto. 

E a volte, come in Veritatis Splendor che inizia con la terza frase del sec. 74, “intenzione” è usato in modo più stretto e distinto da “oggetto”, così come “fini” sono distinti da “mezzi” anche se per quasi tutti gli scopi pratici i fini sono mezzi e i mezzi sono fini.  Le intenzioni, quando sono così distinte dagli oggetti, sono di più lontano, più finali, scopi, fini, scopi, motivi.  Il requisito della ragione è che tutte le intenzioni in senso lato – comprese quelle che in senso stretto sono oggetto (o oggetti) piuttosto che intenzione (o intenzioni) – devono essere in linea con la ragione, e nessuna di esse è disposta (intendendo o scegliendo) a distruggere o danneggiare un bene umano fondamentale.  In questo senso, ci sono mezzi che nessun fine può giustificare, e i mali non si possono scegliere anche per il bene, e non è sufficiente avere buone intenzioni e una giusta preoccupazione per le conseguenze a lungo termine, compresi gli effetti collaterali.  Bonum solo ex integra causa, malum ex quocumque defectu – da torto del fine o torto dei mezzi o ingiustizia degli effetti collaterali.  

La giustezza o l’ingiustizia del bombardamento nucleare di Nagasaki non si risolve semplicemente stabilendo se le intenzioni erano libere dall’odio e si preoccupavano solo del benessere umano a lungo termine (compreso il benessere giapponese) e se le conseguenze a medio termine erano per molti aspetti abbastanza probabili.  Non ci si deve chiedere solo delle intenzioni e delle circostanze, ma anche dell’oggetto: i pianificatori dell’operazione avevano bisogno, per il suo successo, della distruzione di (molti) non combattenti e quindi hanno scelto la loro distruzione come mezzo, cioè hanno quell’uccisione come oggetto (cioè, nel senso ampio del termine, come una delle loro intenzioni)?

Ho riassunto nel linguaggio della tradizione – pienamente compreso da un punto di vista rigorosamente interno, morale, mai meramente fisico o comportamentale – ciò che Giovanni Paolo II intende per tipo di comportamento, per atto umano, e per oggetto dell’atto umano quando i richiami nella Veritatis Splendor che ci sono 

atti che nella tradizione morale della Chiesa sono stati definiti “intrinsecamente malvagi” (intrinsece malum); essi sono sempre e di per sé, in altre parole, per il loro stesso oggetto, e al di là delle ulteriori intenzioni di chi agisce e delle circostanze. (80; anche sez. 81)

 

Quindi: la conclusione principale e l’insegnamento centrale di Veritatis Splendor è esposta nel sec. 79 e ripetuta quasi alla lettera nel sec. 82:

Si deve quindi respingere la tesi, caratteristica delle teorie teleologiche e proporzionaliste, secondo la quale è impossibile qualificare come moralmente malvagio secondo la sua specie – il suo “oggetto” – la scelta deliberata di certi tipi di comportamento o di atti specifici, a parte una considerazione dell’intenzione per la quale si fa la scelta o la totalità delle conseguenze prevedibili di quell’atto per tutti gli interessati. (sottolinea l’originale)

 

Come atto magisteriale, questa condanna si basa principalmente sulla Scrittura rivelata e sulla tradizione della fede cristiana (49, 79, 81; cfr. specialmente 1 Corinzi 6. 9-10).  Ma l’Enciclica delinea anche (senza esporre) una critica filosofica delle relative teorie proporzionaliste o teleologhe. Tali teorie propongono di determinare le “proporzioni” tra i beni e i mali “premorali” che ci si attende da una scelta, ma Veritatis Splendor sottolinea “l’impossibilità di valutare tutte le conseguenze e gli effetti del bene e del male” con qualsiasi “pesatura” o “misurazione” razionale (77). 

Potremmo metterla così.  I beni e i danni che sono intrinseci alle persone e alle loro associazioni iniziano solo in questa vita, e semplicemente non possono essere pesati l’uno contro l’altro nel modo proposto dai proporzionalisti, cioè usando la ragione, ma non facendo uso di norme morali nel processo di valutazione.  La provvidenza umana e la valutazione non possono mai giungere alla conclusione che la scelta di uccidere un innocente o di commettere adulterio comporterà meno danni, nel complesso e a lungo termine, rispetto alla scelta di astenersi.  Tra le ragioni che bloccano tale conclusione c’è un fatto, una verità ricordata più di una volta in Veritatis Splendor, e centrale in The Acting Person.  La verità è che scegliendo di compiere atti del tipo identificato dalla tradizione filosofica cristiana e centrale come intrinsecamente malvagi, non si sceglie semplicemente di produrre i cambiamenti che Veritatis Splendor 71 chiama cambiamenti “nello stato delle cose al di fuori” della volontà della persona che agisce – gli effetti “transitivi” della scelta.  Si sta anche facendo di ciò che Veritatis Splendor 65 chiama “una decisione su se stessi” – creando così un effetto “intransitivo”: costituendo se stessi il tipo di persona che fa queste cose.

Se non ci si pente, le conseguenze di tale autodeterminazione continuano in questo mondo a tempo indeterminato (cioè senza limiti di tempo), e nell’eternità, già ora.  Anche le implicazioni e i risultati di questa volontà, e dell’approvazione da parte di altre persone (e quindi della loro disponibilità condizionata ad agire allo stesso modo), sfuggono completamente a tutti gli sforzi proporzionalisti o consequenzialisti per soppesare e – con la ragione e senza un deciso appello ai principi morali – valutare l’equilibrio tra le conseguenze “pre-morali” buone e cattive della scelta.

Questa è la rilevanza di tali scelte e atti per la vita eterna.  E penso che la persona di cui questa conferenza ha preso in considerazione un frammento del suo lavoro penserebbe che questo sia il luogo adatto per finire.”